Urban e giustizia

1 Gennaio 2018

di FRODE


Se la prospettiva cambia da soggetto a soggetto, sono consapevole che la mia, a cavallo tra il mondo dell’urban art e quello della giustizia, è insolita, forse unica. Nel 1992, quando presi la prima bomboletta, avevo soltanto l’intenzione di realizzare una bella tag che fosse visibile a tutti. Il writing per me era un’espressione libera, per lo più nell’illegalità. Poi scoprii una soddisfazione pura nell’accostare, alla ricerca dell’adrenalina, anche un intento pittorico e comunicativo, più propriamente appartenente alla sfera dell’arte. Entrai per la prima volta in un Tribunale da indagato proprio per il reato di imbrattamento, anche se del tutto certo che il procedimento sarebbe stato archiviato, cosa peraltro puntualmente avvenuta. Quello che non sapevo, e nemmeno immaginavo, era che da lì a poco avrei fatto l’avvocato penalista e, come a seguire un destino ineluttabile, avrei concentrato le mie esperienze professionali proprio nella difesa in giudizio di writer e street artist. Da anni ho sposato un modello di vita che mi permette di sperimentare a fondo l’unione tra la carriera professionale di avvocato e quella creativa di urban artist. Nei miei lavori racconto personali interpretazioni della legge e dei fenomeni sociali, rileggo esperienze e ne traggo spunti di elaborazione per proporre nuovi orizzonti. Ad esempio in una delle mie ultime facciate, l’opera Urban Tweet, ho riprodotto un pettirosso poligonale nel mezzo di una giungla, che offre una doppia lettura: la visione che ha un detenuto della realtà attraverso le sbarre della cella, ma anche lo smarrimento di un animale che rappresenta la purezza dell’animo umano davanti alla “giungla urbana” in cui si ritrova catapultato. Quando indosso le vesti di avvocato, spesso mi trovo a difendere writer dall’accusa di imbrattamento. Oggi, in conseguenza del pacchetto sicurezza 2009, il reato di imbrattamento (ex art. 639 del Codice penale) nel nostro ordinamento prevede la procedibilità d’ufficio per quasi tutte le ipotesi di creazioni non autorizzate in strada. Ciò si traduce nel portare a processo gli street artist, che si vedono costretti a risarcire le imprevedibili conseguenze del proprio gesto, spesso letto come una lesione dell’immagine e del decoro del Comune. Ogni caso è una storia a sé, pertanto debbo sempre congegnare una difesa ad hoc. Con tutta onestà, non sempre il mio profondo credo nel mondo della street art ha una base sostanziale nel caso specifico, quindi capita di dover spingere la propria linea di difesa verso accordi risarcitori con le parti e chiudere con un patteggiamento. Altre volte uso come argomentazione il fatto che un muro disegnato è più bello di un muro pasticciato e abbandonato all’incuria. Quindi, in termini giuridicamente condivisibili, si potrebbe tradurre nell’affermazione che non è configurabile un imbrattamento laddove si sia agito non per insudiciare un muro immacolato, ma nel tentativo di apporre un gesto graficamente pregevole su una superficie già imbrattata. Il mio lavoro è anche una specie di biglietto da visita per introdurre l’urban art in luoghi insoliti, oltre a essere una grande fonte di ispirazione. In veste di legale ho lavorato a un ponte tra istituzioni e mondo dei writer milanesi, sfociato nella prima delibera comunale, chiamata “Cento muri”, che ha regalato agli artisti spazi autorizzati sui muri della città. Oppure mi è capitato di spiegare a tv e stampa, in veste di legale, come il writing non sia assimilabile al vandalismo, ma esprima una ricerca stilistica. Le vittorie importanti nelle aule giudiziarie a favore del diritto di espressione mi hanno ispirato la realizzazione di alcune murate in strada, concepite spesso anche insieme ai miei assistiti. È il caso del 2014, quando feci assolvere uno street artist (Manu Invisible) facendone riconoscere al Tribunale l’intento artistico, e ottenendo poi la conferma in Corte d’appello e persino in Cassazione. Per festeggiare la vittoria in primo grado, con l’aiuto dell’imputato creai una grande opera sul muro di un passante ferroviario che rappresentava l’aula del Tribunale con un processo in corso. Per il processo d’appello, realizzammo insieme una specie di dea della giustizia per i writer, prendendo spunto dalla statua che si trova nel cortile del Tribunale di Milano, e intitolandola Ius-streetia. Oggi, inaspettatamente, per la collezione permanente di Palazzo di Giustizia, è stata scelta una mia opera intitolata Stop violence against women, frutto del primo live painting eseguito in un Tribunale, ma anche simbolo di un impegno professionale a favore dell’affermazione di diritti paritari e antidiscriminatori che ho portato avanti con il Comitato pari opportunità dell’Ordine Avvocati di Milano. Dalla timidezza iniziale nell’affermare idee del tutto personali davanti ai giudici, al successivo riconoscimento in sentenza di questi principi, ho dovuto lavorare molto. Non si è trattato solo di studiare e approfondire tecnicamente ogni processo, perché fondamentale è stato ricercare un preciso equilibrio interiore per arrivare a comprendere le vere ragioni che rendono possibile il connubio tra arte e giustizia. Da tempo accarezzo l’idea di riproporre il concetto di unione tra bello e giusto, proprio come avveniva nell’antica polis greca parecchio tempo fa. Prima ancora di capire che questo genere di lavoro poteva funzionare, ho vissuto su un doppio binario, che poi in realtà spesso diventava unico. Salti mortali per chiudere un’opera e intanto anche concludere gli atti preparatori per un processo. Chi mi incontra per lavoro, avrà notato alcune situazioni paradossali, come suggerire il comportamento da tenere in un interrogatorio a un assistito mentre mi trovo in cima a un palazzo a dipingere. O concludere un bozzetto preparatorio sui banchi dell’aula di un Tribunale sotto gli occhi curiosi di un pubblico ministero. O ancora parlare di legalità a un pubblico di ragazzi con le mani sporche di vernice dello spray che porto dalla sera prima dentro la mia valigetta. Di certo stabilire un preciso confine tra legalità e illegalità in nome di una presunta “artisticità” di un intervento non è possibile. Sarebbe come dire che anche rubare è opinabile e consentito in alcuni casi. Quello che credo è che l’urban art sia tale in primis quale forma di illegalità artistica. Pertanto è inutile sovvertirne l’essenza mantenendo inalterata la sostanza, in quanto si rischia di accomunarla con altre forme espressive del passato, riducendone l’autonoma ventata rivoluzionaria. Ciò che difficilmente le persone riescono ad accettare è che questa forma artistica non chiede di essere legittimata, o incasellata nelle vecchie categorie di legalizzazione e musealizzazione. La natura dell’opera che nasce su un supporto non richiesto e non sollecitato è propria di un gesto artistico innato e libero, spontaneo, privo di compromessi. Il cambiamento più grande, quindi, è costituito sia dal sovvertire molti dei vecchi canoni estetici, ad esempio avendo messo al centro della raffigurazione artistica la parola in quanto tale, sia dall’interpretare lo spazio pubblico in modo creativo e un po’ selvaggio.