Tra street art e fotografia. Intervista a Martha Cooper

5 Agosto 2019

di GIAN GAVINO PAZZOLA, CURATORE DI CAMERA


Martha Cooper è la fotografa di riferimento della scena artistica hip hop newyorkese. Nata nel 1943 a Baltimora, dagli anni Settanta a oggi ha documentato il lavoro e le opere dei protagonisti della cultura hip hop, del writing e della street art internazionale. Figlia del proprietario di un negozio di fotografia, il rapporto di Martha con l’immagine inizia alla fine degli anni Quaranta, quando il padre le regala la prima macchina fotografica e la porta con sé alla ricerca di scatti. Dopo aver lavorato per il National Geographic Magazine, negli anni Settanta approda al New York Post. E da lì ha inizio il suo cammino.

Martha ci racconti come nasce il tuo interesse fotografico per la street art?

Nel 1975 mi trasferii da Rhode Island a New York City per intraprendere la carriera di fotografa in un grande giornale. L’impatto con la città fu devastante: all’epoca i graffiti erano dappertutto, ma non avevo idea di cosa fossero. Qualche tempo dopo, quando fui capace di decifrare le lettere, non riuscivo comunque a coglierne il senso. Tuttavia, tale contesto culturale mi incuriosiva. Due anni più tardi sono diventata fotografa per il New York Post. In quel periodo realizzavamo servizi in diretta da tutti i quartieri della città, lavorando su due canali radio per le news e – allo stesso tempo – cercavo di fare le foto.

Ricordi un episodio in particolare, la scintilla della tua esigenza di ricerca?

Guidando verso la redazione del giornale, sulla Lower East Side, iniziai a fotografare la città. Nel primo periodo, fotografavo i bambini che giocavano per strada e creavano i loro giochi senza l’aiuto degli adulti – usando rottami e altro materiale di recupero. Un giorno un ragazzo mi mostrò il suo quaderno di disegni e mi chiese perché non fotografassi i graffiti. Mi spiegò che rappresentavano le tag, i “nomi”, che poi venivano dipinte sul muro: per me fu una rivelazione fantastica.

In che modo sei entrata in contatto con la scena dei graffiti e i suoi protagonisti?

Con il tempo ho conosciuto alcuni writers, come HE3, che mi presentò Dondi. Quest’ultimo aveva ritagliato una delle mie foto dal Post e l’aveva incollata in un suo libro, citandone i credits. In pratica mi riconobbe la paternità di quello scatto all’interno della comunità dei writers newyorchesi. Più avanti, Dondi mi raccontò come si dipinge un treno, insegnandomi anche la terminologia dei graffiti e presentandomi ad altri writers. Mi resi conto di voler fotografare quello che mi veniva descritto come un movimento culturale.

Quali motivazioni ti hanno portato a questa decisione?

Sicuramente aver studiato antropologia, e anche aver sposato un antropologo, hanno influito nell’aumentare il mio interesse nel catturare l’arte dei graffiti dentro il suo contesto culturale. Per fare questo, ho passato molto tempo nelle yards e vissuto in prima persona tali emozioni: una vera ricerca sul campo. Per rendere tale esperienza in maniera sistematica e approfondita, dopo aver passato una notte con Dondi e Duro che facevano un whole-car top-to-bottom [una carrozza ferroviaria dipinta interamente sia nel senso della lunghezza che nell’altezza, Ndr], ho iniziato a mappare tutti i luoghi dove potevo vedere i treni fermi per fotografarli. Un comportamento ossessivo che, nel 1980, mi ha portato a lasciare il lavoro al Post per fotografare i graffiti e documentare l’evoluzione della scena hip hop.

Cosa ne pensi del rapporto tra fotografia e street art?

La fotografia mi è subito sembrato un ottimo modo per preservare un’arte effimera come quella dei graffiti, permettendo alle opere di essere viste, sul web o in stampa, da molte più persone di quante potrebbero mai vedere gli originali. Le fotografie permetteranno agli storici futuri di comprendere e analizzare l’impatto di ciò che è diventato un enorme movimento artistico globale.

[Photocredits: in alto Martha Cooper davanti a un’installazione fotografica, ritratta da Boris Niehaus]

Il presente testo è tratto dal catalogo Maua Torino, acquistabile sul sito di Terre di Mezzo Editore. Anche dalle sue pagine è possibile fruire dei murales in realtà aumentata, basta inquadrarle con la app Bepart scaricabile gratuitamente dai PlayStore per Android e iOS.