Street art e periferia

1 Gennaio 2018

di MAURO FILIPPI


Street art e periferia sono semplici buzzwords o concetti ancora pregni di significato? Forse entrambe le cose. Oggi parlare di street art senza ricorrere a distinguo, o ad ambigue etichette, è necessario quando si vogliono approfondire le questioni cruciali a cui questo termine conduce. Per cercare di circoscrivere e definire il fenomeno, infatti, spesso ci si imbatte in concetti vaghi, come arte urbana, arte pubblica, muralismo artistico e creatività urbana, i quali però, usati senza distinzioni, non fanno altro che accrescere la confusione su una materia già per sua natura multidisciplinare e molto eterogenea. Integrare il fatto artistico con le prospettive antropologiche, sociologiche, semiotiche e urbanistiche è imprescindibile. Come per la parola “periferia”, il cui significato prende vita solo se contrapposto a quello di “centro”, così anche “street art” sembra avere un senso esclusivamente contrapposta al concetto di “museum art”, che in via ipotetica dovrebbe comprendere tutta l’arte realizzata per una fruizione in luoghi chiusi e protetti, e lì custodita. Ma quando proviamo a ignorare queste semplici etichette, che agiscono da riduttori di significato, si materializzano all’improvviso mondi ipercomplessi fatti di città policentriche, zone grigie e aree periurbane in cui convivono progetti artistici indipendenti e ufficiali, legali e illegali, apprezzati e falliti: insomma tutto e il contrario di tutto! Questo è esattamente ciò che tiene insieme, in maniera reale e ideale, città e arte urbana: la contraddizione propria della complessità di quel tessuto materiale da cui entrambe scaturiscono e che entrambe incrementano, con modalità diverse e spesso divergenti. Ne deriva forse una concezione troppo relativista, che indurrebbe a uno studio del fenomeno caso per caso, piuttosto che per assiomi. Ma cosa hanno in comune i murales della periferia di Los Angeles con quelli delle banlieue parigine o delle favelas di Rio? Forse qualcosa dal punto di vista estetico, e talvolta anche etico. In tutti i casi, infatti, sia pure per ragioni e con effetti diversi o addirittura contrastanti, il colore interviene a modificare i luoghi, e per ricaduta anche le comunità che li vivono. Succede quindi che da qualche parte un artista internazionale, sponsorizzato da una banca, da una galleria, o da una municipalità per “abbellire” una parete di 500 metri quadri stravolga la connotazione percettiva identitaria della comunità di un’intera area cittadina, e magari poco più in là una crew di “giovani delinquenti”, con stencil e spruzzi, diffonda un pervasivo appello STOP GENTRIFICATION per cercare di contrastare i paradossali e distorcenti effetti di alcune di queste “riqualificazioni” artistiche. Troviamo, quindi, nei due estremi di utilizzo di uno stesso mezzo una strategia politica ufficiale e autorizzata che tende a riqualificare, e una controcultura che vuole contrastare ciò che giudica un’aberrazione. Nel mezzo (ovvero nella maggior parte dei casi) la street art è un’espressione artistica informale e libera che reinterpreta i luoghi e vi agisce, con approcci personali e collettivi di ricerca artistica, impegno politico, o con una semplice finalità di “beautification” volta al decoro urbano. Per un breve periodo ci siamo anche illusi che il web avrebbe potuto colmare molte delle distanze che ancora separano i centri e le periferie di tutto il mondo, salvo poi accorgerci che il digital divide invece stava creando nuovi ghetti virtuali e nuovi “ceti social” in competizione tra loro. Un interessante esempio che porta i segni di questo fenomeno nel mondo dell’arte è Baloon Dog, installazione di realtà aumentata del noto artista statunitense Jeff Koons realizzata in collaborazione con Snapchat e collocata virtualmente in varie parti del mondo. Poco tempo dopo il lancio online del progetto, il cileno Sebastian Errazuriz pone un lecito interrogativo: si tratta davvero di arte pubblica anche se la collettività non ha la possibilità di vandalizzarla? Così, per provocazione, crea un’app alternativa (arnyc.nyc) contenente la propria versione della scultura virtuale di Koons piena di tag, graffiti e throw up. Si potrebbe ritenere un tentativo di rivendicazione di un possibile “diritto alla bellezza”? Ma se i concetti di street art e periferia sono stati ampiamente abusati negli ultimi anni da esperti e addetti ai lavori, è quello di “rigenerazione urbana” a dilagare sulle testate di ogni genere, dimensione e schieramento. Siamo veramente certi però che l’equazione street art + periferia = rigenerazione urbana sia sempre corretta? Forse indagando i singoli casi ci si accorgerebbe che non è sempre così. Valutare l’impatto di un intervento, stimare l’efficacia e gli effetti di un progetto artistico su scala urbana richiede monitoraggi che spesso non vengono stabiliti né usati. Alcuni progetti nascono e muoiono senza lasciare traccia, altri sono forieri di cambiamenti crescenti con la capacità progressiva di allontanarsi dal mero fatto artistico e ricadere sulla componente sociale, ambientale e urbanistica. Di sicuro la street art, malgrado la sua natura effimera, ha una grande qualità: saper modificare, perlomeno visivamente e temporaneamente, lo status dei luoghi, attivando la curiosità di chi li vive e li attraversa. L’arte urbana diviene in questo senso un potente attivatore di interesse, un utile strumento comunicativo in grado di illuminare in maniera improvvisa e sorprendente contraddizioni e questioni irrisolte, nascoste o dimenticate, vere e proprie fratture urbane in grado di dividere comunità e generare differenze sociali. Assume il valore di strumento interattivo, relazionale, intimamente connesso allo spazio, e interviene da protagonista nelle dinamiche di riattivazione urbana, nelle logiche degli scambi e dei rapporti sociali e, non ultimo, nella ridefinizione fisica delle città. Certo, non può direttamente risolvere le questioni e le fratture politico/sociali che spesso affronta, ma talvolta riesce a indirizzare e facilitare l’attivazione di processi in grado di contrastarle. Succede quindi che a Palermo, ad esempio, un artista comasco faccia una lunga residenza a Borgo Vecchio, quartiere centrale fisicamente ma marginale dal punto di vista sociale, e decida di utilizzare la street art come meccanismo di coinvolgimento dei bambini in attività di educazione informale, con lo scopo di contrastare la dispersione scolastica e favorire l’integrazione. Le opere create, una volta comunicate e diffuse, attirano via via un pubblico crescente portando nuovi visitatori e artisti, e risvegliano l’interesse dell’amministrazione cittadina che decide di intervenire su alcune aree critiche. Certe opere vengono poi adottate da artisti digitali coinvolti in un bizzarro workshop di realtà aumentata, e le loro produzioni, supportate dalle immagini fotografiche, vengono fruite all’interno di una mostra ospitata in Italia, in Grecia e in Slovenia. Infine il progetto, esteso e ampliato, diventa un format, e oggi si sposta a Milano.