storico e critico d’arte – curatore indipendente
Santa Croce di Magliano, piccolo centro del basso Molise, ha saputo distinguersi, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, come un luogo sorprendentemente fertile per la produzione artistica contemporanea. In rapporto alla sua dimensione demografica, il paese ha visto nascere un numero significativo di artisti – pittori, scultori, registi – che hanno inciso sul panorama culturale regionale e nazionale, dando vita a mostre, convegni, performance e sperimentazioni teatrali. Questo fervore, culminato nel 2005 con la fondazione della Galleria Civica di Arte Contemporanea Sacrocam – contenente un corpus di cinquecento opere della pop art italiana, acquisite tramite un fondo provinciale – ha subito tuttavia una brusca interruzione. Dal 2005 in poi, infatti, il panorama locale è rimasto privo di iniziative, segnato da una fase di stasi e di silenzio.
In questo vuoto culturale si radica il Premio Antonio Giordano (PAG), nato nel 2014 e dedicato alla memoria dell’artista, scomparso nel 2013. L’obiettivo non era soltanto quello di proseguire idealmente il lavoro di Antonio Giordano nella divulgazione e nell’indagine delle arti visive, ma anche di restituire centralità all’arte contemporanea come motore di riflessione critica, crescita culturale e riappropriazione dello spazio urbano. L’intuizione alla base del progetto è stata chiara: uscire dagli spazi chiusi, scegliere il luogo pubblico come campo d’azione, trasformare le strade in un laboratorio diffuso dove l’artista e la comunità potessero incontrarsi senza filtri. In tal modo il fruitore, coinvolto nel processo creativo, diveniva coautore, in un reciproco scambio che riecheggia le riflessioni di Gillo Dorfles sulla necessaria permeabilità tra arte e vita.
L’esordio del progetto, avvenuto grazie al sostegno di pochi amici e alla sensibilità di un’amministrazione comunale attenta, ha trovato la sua scintilla nell’incontro con Millo, artista allora emergente impegnato nelle prime esperienze di muralismo urbano. Da lì, attraverso il passaparola e l’entusiasmo contagioso degli stessi artisti, il PAG ha saputo consolidarsi, arrivando a produrre oltre quaranta interventi tra murales e installazioni, e ad aprirsi a collaborazioni con associazioni e istituzioni di diversa natura. Il percorso intrapreso ha progressivamente ampliato la risonanza del progetto: riconoscimenti istituzionali, come l’iscrizione nel 2019 all’elenco nazionale delle ACU curate da Inward, e una crescente visibilità mediatica, dalle riviste specializzate fino a piattaforme internazionali, hanno permesso a Santa Croce di Magliano di trasformarsi in un luogo di riferimento per artisti e curatori. L’arte pubblica è diventata così non solo strumento di rigenerazione urbana, ma anche dispositivo pedagogico e comunitario, capace di ridisegnare i confini della percezione e di ricollegare la storia locale a dinamiche globali.
Tra i progetti più significativi si ricordano La Madonna dell’adesso del Collettivo FX, le tre edizioni di Mani in alto! presso la casa circondariale di Larino con Guerrilla Spam e CPIA, la partecipazione a HollAndMe – Dutch Street Art in Six Italian Cities, promosso dall’Ambasciata e Consolato dei Paesi Bassi, e ancora Border-light: istruzioni per abitare il margine, vincitore del bando Creative Living Lab del MiC. A questi si affiancano iniziative di carattere linguistico e antropologico, come il progetto sul dialetto locale, e aperture internazionali, come la collaborazione con il governo boliviano per favorire la mobilità di artisti sudamericani. Il PAG non si configura dunque come un semplice contenitore di eventi, ma come un dispositivo culturale che ha riattivato un tessuto comunitario, facendo dialogare memoria e presente, eredità e innovazione. A Santa Croce di Magliano, un borgo che sembrava condannato all’oblio culturale, l’arte pubblica è divenuta linguaggio condiviso, strumento critico ed esperienza partecipata, confermando come anche nei luoghi periferici sia possibile innescare processi di trasformazione autentici e duraturi.
Se la prima fase del PAG ha mostrato come l’arte pubblica potesse diventare un dispositivo di rigenerazione culturale e sociale, oggi la sfida si sposta verso un terreno ancora più sperimentale: la realtà aumentata. L’incontro con Bepart e con il MAUA – Museo di Arte Urbana Aumentata – ha infatti portato il paese ad entrare in un circuito internazionale di ricerca sui linguaggi digitali applicati all’arte urbana, al fianco di città come Milano, Palermo, Torino, Brescia, Waterford e Firenze. La tappa molisana, nata dalla collaborazione fra Bepart e l’Associazione Culturale Antonio Giordano, è parte di MAUA Special Edition, progetto sostenuto dal Ministero della Cultura con fondi europei. In tale contesto, la sfida principale non è stata solo tecnologica, ma linguistica: la realtà aumentata è ancora un’arte “primitiva”, non pienamente codificata, che necessita di un lessico specifico per poter esprimere appieno le sue potenzialità. Uscire dagli stereotipi di un Molise “che non esiste” significa anche questo: sperimentare linguaggi nuovi e investire nella crescita di competenze creative.
Immaginare una fruizione artistica che unisca la dimensione tangibile dei murales alla stratificazione immateriale delle animazioni digitali significa collocarsi in un territorio estetico in cui la città reale si apre alla città virtuale e il muro diventa superficie multidimensionale di attraversamento. L’opera assume la forma di un nodo, un intreccio di presenza e simulazione, capace di attivare processi di ricerca e, al tempo stesso, di rendersi accessibile a un pubblico vasto e diversificato. In tale prospettiva, la riflessione di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica acquista un valore nuovo: la realtà aumentata non dissolve l’aura, ma la moltiplica, generando un’opera stratificata in più livelli, che vive tanto nella fisicità della pittura murale quanto nella proiezione immateriale dell’animazione. La fruizione diventa un’esperienza mobile, instabile, in cui il fruitore stesso è chiamato a muoversi tra il dato concreto e il suo riflesso tecnologico. Ed è proprio in questa ambiguità che si innesta ciò che Jean Baudrillard avrebbe chiamato “simulacro”: la dimensione aumentata non è un semplice orpello del reale, ma un doppio che dialoga con l’opera originaria, la destabilizza, ne riarticola il senso. Il murales, trasformato dall’innesto digitale, non si limita a restituire un’immagine urbana concreta e tangibile, diventa un dispositivo critico che interroga i rapporti fra realtà e virtualità, fra ciò che si offre allo sguardo e ciò che rimane in sospensione, accessibile solo attraverso la mediazione tecnologica. Lo spazio occupato viene ripensato dall’interno, aprendo un campo di possibilità estetiche in cui la comunità si trova immersa in una costante oscillazione tra la materia del muro e l’immaterialità del suo doppio digitale.
Il workshop organizzato a Santa Croce di Magliano, della durata di quattro giorni, ha avuto proprio questa finalità: formare giovani creativi digitali alla produzione di contenuti in realtà aumentata, capaci di trasformare i murales già presenti sul territorio in opere “ibride”, esperibili tramite smartphone e visori. Ogni partecipante, chiamato a ideare animazioni 2D o modelli 3D, ha avuto la possibilità di confrontarsi con un metodo di lavoro che ha unito design, sperimentazione tecnica e consapevolezza artistica. Le opere selezionate entreranno così a far parte del percorso del MAUA | Santa Croce di Magliano, un museo a cielo aperto che si proietta verso un’inedita dimensione digitale e multicanale. Non si tratta di “aggiungere tecnologia” a un patrimonio di pratiche già vitali, ma di ridefinire le grammatiche sociali dello spazio pubblico creativo. Se lo spazio urbano è una produzione sociale e non un semplice contenitore, la realtà aumentata diviene un ulteriore regime di produzione dello spazio: un layer che traduce il muro in interfaccia e la strada in ambiente narrativo. Ciò sposta l’asse dalla fruizione all’uso, dalle forme alla pratica: camminare, sostare, inquadrare lo smartphone, condividere, divengono tattiche quotidiane che riscrivono il testo urbano rendendo il suo valore non solo estetico ma relazionale.
Quando il fruitore inquadra con lo smartphone un murale aumentato, non compie un gesto neutro, ma inserisce il proprio corpo in una coreografia urbana che integra movimenti, dispositivi tecnologici e dinamiche di condivisione. Camminare verso l’opera, sostare davanti ad essa, attivare il contenuto AR, registrare o diffondere l’esperienza attraverso i social network: tutto ciò non è più semplice fruizione passiva, ma uso creativo dello spazio, capace di trasformare il paese in un testo continuamente riscritto. Il murale aumentato diventa un dispositivo performativo, oggetto da contemplare, ma anche catalizzatore di pratiche che risignificano il luogo, mentre l’atto di inquadrare con lo smartphone diviene un vero e proprio rito estetico che rielabora il rapporto tra corpo e spazio. Inoltre, questi gesti si moltiplicano attraverso la condivisione: fotografare lo schermo, pubblicare l’animazione su Instagram o TikTok, scambiare il contenuto con altri. L’opera viene a formarsi come narrazione diffusa, non più vincolata al solo luogo fisico, ma trasposta e rilanciata in altre geografie simboliche, in contro-mappe digitali che fanno emergere nuovi percorsi e modi per vivere il luogo.
L’AR può democratizzare l’accesso simbolico a pratiche d’arte, convertendo capitale tecnico e creativo in riconoscimento collettivo, con la comunità che funziona come hub di amplificazione simbolica. Ma la stessa visibilità è ambivalente: può attivare economie locali o innescare artwashing e gentrificazione “morbida”, se l’attrattività estetica precede tutele sociali. La sfida è progettare opere che restino fruibili e manutenibili, evitando obsolescenze che trasformano l’esperienza in una promessa mancata; in questa ottica, il museo a cielo aperto “aumentato” agisce come terzo luogo ibrido -fisico e digitale- dove si accumula capitale sociale non per la sola co-presenza, ma per la capacità di negoziare identità, memorie, conflitti. I murales condensano storie e appartenenze; le animazioni aprono scenari differenti. Tra le due dimensioni si costruisce un patto di leggibilità che deve basarsi su questi tre punti: accesso (inclusione digitale, didattica dei media, usabilità senza barriere); coralità (processi di co-autorialità reali e non ornamentali); cura (manutenzione tecnica ed editoriale come responsabilità pubblica). Quando queste condizioni si allineano, l’opera smette di essere un evento sporadico e diventa istituzione diffusa, laboratorio stabile in cui arte e pubblico, memoria e progetto, centro e margine si alimentano nel tempo. Il connubio fra Bepart e PAG a Santa Croce di Magliano si configura così come un territorio in cui l’arte contemporanea resiste e si reinventa entrando nelle dinamiche sociali dello spazio pubblico: dal muralismo alle installazioni, fino alle sperimentazioni digitali, il paese si trasforma nel luogo di una ricerca che ambisce a superare i confini, proiettandosi in un dialogo trasversale e su più livelli, e che costruisce, passo dopo passo, un lessico comune per l’arte aumentata del futuro.
