Ci sono luoghi dove l’arte non si limita a raccontare storie, ma diventa strumento vivo di trasformazione. È in questi terreni fertili, fatti di coraggio e di una curiosità che non si ferma al ‘si è sempre fatto così’, che MAUA Museo di Arte Urbana Aumentata sceglie di radicarsi. Non per aggiungere un’opera a un muro, ma per aprire un dialogo nuovo, un’esperienza che rompe i confini tra realtà e immaginazione.
MAUA, infatti, produce oltre il reale. Le sue opere si generano moltiplicando gli sguardi su ciò che già esiste nel territorio – nel caso del capitolo siciliano, le opere di street art stratificate anno dopo anno, iniziativa dopo iniziativa nei Sette Cortili di Farm Cultural Park – e chiedendo ai passanti di diventare protagonisti attivi di un racconto che unisce diversi punti di vista, immagini in movimento e suoni.
Farm Cultural Park è uno di questi luoghi: un laboratorio di rigenerazione che, dai Sette Cortili di Favara, ha trasformato una periferia in un osservatorio internazionale su città, diritti, clima e futuro. Farm non si limita a ospitare mostre: costruisce esperienze, genera domande, apre ferite e possibilità. Qui le mostre diventano dispositivi civici, capaci di tenere insieme memoria e innovazione, estetica e politica, comunità e visione globale.
Sono proprio le esposizioni degli ultimi anni – dalla biennale Countless Cities, alle esperienze corali come Abbiamo tutto, manca il resto! – oltre agli scambi e dialoghi con il fondatore di Farm Andrea Bartoli, ad aver contribuito a amplificare il lessico e gli immaginari degli artisti e artiste coinvolte. Le edizioni di MAUA, infatti, sono un cortocircuito poetico e tecnologico. Ma possono accadere in luoghi in fermento. Le opere, realizzate in collaborazione con artiste, illustratori e videomaker non si impongono, ma si innestano. Ogni immagine diventa portale: basta uno smartphone per attivare il movimento, per ascoltare una storia, per scoprire un mondo che non si vede a occhio nudo. La realtà aumentata non sostituisce, ma amplifica. Non distrae, ma invita. Alla meraviglia, al dubbio, al gioco.
In un luogo come Farm, dove la street art è sempre stata un gesto fragile e autentico, non semplice decorazione, MAUA trova una risonanza profonda. Entrambi i progetti nati fuori dai circuiti ufficiali, fuori dalle regole del mercato. Entrambi sono mossi dalla stessa urgenza: declinare la creatività usando verbi al plurale, agire come degli enzimi per stimolare cura, curiosità e responsabilità. Entrambi hanno in comune una forte spinta verso ciò che non ha ancora contorni definiti: l’arte digitale si apre quindi come un territorio di cui tracciare nuove mappe e che, proprio in virtù di questa fase pioneristica, permette di creare senza preoccuparsi troppo di etichette e belle copie.
Partecipare a MAUA, come artista o come spettatore significa entrare a far parte di una tessitura relazionale, affermare che “realtà aumentata” non è solo una tecnologia ma una postura con cui osservare ed essere parte di ciò che ci circonda. Un percorso aperto dove si impara, si sbaglia, si sogna.
MAUA a Farm è dunque un atto di fiducia e di coraggio. Fiducia nella possibilità di fare arte che attraversa il reale, che si fa spazio per la partecipazione, che amplifica la bellezza e la complessità di un territorio. Coraggio di lavorare in un ecosistema vivo, dove nulla è scontato e tutto è da costruire giorno per giorno.
Quello che nasce è un museo che non si vede, ma si sente. Che non chiede silenzio, ma attenzione. Che non è fatto di pareti bianche, ma di pareti vive. MAUA a Favara non si inserisce in un contesto: si lascia attraversare da esso. Raccoglie il senso effimero e resistente della street art locale, ne rilancia le traiettorie, ne accoglie la misura. Nessuna monumentalità, nessuna retorica.
In questa danza tra reale e virtuale, tra presenza e immaginazione, si apre una nuova via per l’arte urbana e l’arte digitale, una via che non pretende di risolvere ma di aprire varchi, di porre domande, di creare connessioni inattese.
