Tratto da L’altro volto del reale. Il virtuale nella comunicazione e nelle arti contemporanee
A cura di Cristiano Dalpozzo, Federica Negri, Arianna Novaga
Mimesis Edizioni – Collana: Filosofie
Anno: 2020 | Pagine: 354
ISBN: 9788857573908
Il muro, quando è superficie che attiva la narrazione urbana in essere sovrapponendosi ai segni della comunicazione espansa e diffusa nel contesto cittadino, realizza in sé soglie e attraversamenti semantici che ne fanno statuto ambiguo e supporto impermanente e interattivo dell’immagine.
Il muro che porta figure realizzate da writers nell’estetica e nelle intenzioni della Street Art, è capitolo di un racconto frammentato e disseminato dato alla coscienza unitaria di una visione narrativa che ne ricuce, nelle strutture del testo, sintagmi e paragrafi di senso.
La realtà aumentata “applicata” alle immagini affrescate sui muri, diventa così una possibilità che coniuga pratiche ormai diffuse di rigenerazione a intenzioni immersive di storytelling, in cui reale e virtuale trovano un interessante scambio tra ciò che si sa e ciò che non si sa.
Si conosce la città con i suoi luoghi stratificatati di vissuti. Ma in quei luoghi i punti di vista divergono lungo prospettive aperte al fuori campo. Oltre il visore cioè, la realtà ospita il virtuale in uno scambio che non può che essere politico.
Ecco quindi che MAUA, il Museo di Arte Urbana Aumentata, fa di alcune periferie urbane gallerie a cielo aperto: le metafore e le allegorie rappresentate dai murales si trasformano in racconti che – attivati dagli smartphone – rompono ulteriormente le cornici dei muri, i frame narrativi.
MAUA è un progetto “partecipato, che in ogni città in cui è stato realizzato è arrivato a coinvolgere centinaia di persone fra abitanti dei quartieri, studenti, street artist e creativi digitali. È stato realizzato grazie a una rete di parternariato, con la partecipazione di realtà molto diverse fra loro”.
Si legge sul sito del progetto che “si scarica l’app BePart e quelli che sembrano dei semplici murales cambiano improvvisamente aspetto e si trasformano in nuove, incredibili opere d’arte animate. Per attivare l’animazione, basta inquadrare l’opera con il proprio dispositivo, come a volerla fotografare”.
L’aspetto dunque interessante del progetto non è tanto la pratica immersiva ma il rapporto tra gli elementi identitari del murales (ruolo pubblico dello spazio artistico, racconto espanso e diffuso, anonimato e musealizzazione) e quella poetica della città pulsante che già i futuristi avevano vaticinato nelle loro utopie d’unità urbana: “Fuori dalla cerchia delle circonvallazioni, lontano dai riflettori, fuori dall’ordinario circuito dell’arte, esiste una scena di artisti che non lavorano su tela, ma sui muri”.
L’applicazione attiva nelle città di Milano, Torino e Palermo nelle sue dichiarazioni esplicitate negli intenti, pone la questione del “museo a cielo aperto”, un museo in cui i partecipanti condividono con l’oggetto esposto un personale vissuto. Si ripropone così una pratica democratica che ebbe nel Group Material un efficace esperimento sociale.
Molto si è detto delle sollecitazioni che il muro vive quando su di esso si gioca il discrimine tra atto vandalico e opera d’arte, superficie privata o pubblica e ancora luogo del gesto pubblico o dell’espressione clandestina. Nella Street Art, lo spazio urbano è palcoscenico per una narrazione infinita che si stratifica di messaggi e non cede alla tentazione della conservazione e della tutela. La Street Art nasce per dialogare con i segni dell’esistente e nell’urbano trova il libro di cui essere capitolo e fragile pagina. È genetico il suo essere nel tessuto connettivo della città, a tal punto da accettarne la rimozione, come fu per Keith Haring di cui fu cancellata la sua opera dalla metropolitana romana per l’arrivo di Gorbaciov nel 1990.
Il muro come manifesto, per dire e urlare contro il sistema, divulgare pensiero, purché questo sia politico, si fa luogo di un anonimato diffuso e coeso nel “brand” di un clan che afferma la sua presenza nella storia della comunicazione urbana.
Inoltre la Street, proprio perché non utilitaristica e non commerciale, è “illeggibile” e usa la globalizzazione come cavallo di Troia per veicolare messaggi che diventano icone e icone che rimangono segni riconoscibili ma indecifrabili.
Pensata come un ipertesto, l’opera Street è dunque in grado di raccogliere in sé istanze di coesione sociale, partecipazione attiva che sintetizza il territorio e i suoi bisogni. È il caso ad esempio dell’International Public Art Festival a Cape Town (figura 1).
Fig. 1 International Public Art Festival – Cape Town – Woodstock. Foto di Francesca Marra
“Siamo fermamente convinti che l’educazione delle generazioni presenti e future, la promozione del dialogo e della collaborazione e il potenziamento delle persone e delle comunità attraverso l’arte pubblica possano contribuire a promuovere cambiamenti e atteggiamenti positivi.” Queste parole accompagnano la mission del Festival che dal 2017 a Cape Town racconta storie sulle case del quartiere di Woodstock.
Fig. 2 International Public Art Festival – Cape Town – Woodstock. Foto di Francesca Marra
Scrive Alexandre Tilmans, organizzatore dell’evento: “Questo Festival mette in mostra la ricca storia, creatività, abilità, diversità e stile degli artisti pubblici del Sudafrica; di conseguenza, fungiamo da piattaforma per la pittura di murales e cartelloni pubblicitari, fornendo lavori su commissione agli artisti sudafricani a livello locale e internazionale.” Obiettivo principale del festival è dunque quello di “sensibilizzare l’arte pubblica, colmare il divario tra arte e Street Art e usarlo come mezzo per educare, elevare e ispirare il pubblico.”
Chi partecipa al Festival ha l’opportunità, oltre di osservare la creazione di opere d’arte in tempo reale, di partecipare a visite guidate e workshop in modo del tutto gratuito. Un’esperienza culturale simile e affine a quella del MAUA. L’International Public Art Festival assume un valore ancor più grande soprattutto se si considera l’ambiente in cui si sviluppa e il legame che stabilisce con esso: Salt River è un sobborgo di Cape Town prettamente industriale, che ospita per lo più fabbriche d’abbigliamento e tessili, ma nonostante la zona sia oggi una posizione strategica frequentata da molti lavoratori e studenti, c’è ancora molto da fare per recuperare e proteggere il terreno deindustrializzato dalla fine degli anni Ottanta. L’intervento dell’arte, da parte dell’International Public Art Festival sulle strade di Salt River, permette alla cittadina di godere di una rinnovata freschezza, vedendo i suoi edifici come case, aziende e scuole investite di un rinnovato valore, giovane e aperto all’ascolto e all’incontro.
Fig. 3 International Public Art Festival – Cape Town- Woodstock Foto di Francesca Marra
I murales sono generatori di comunità, appartenenza e memoria, e lo confermano ancora una volta le intenzioni di IPAF: “Nutrire l’edilizia comunitaria, come la trasformazione sociale e la coesione attraverso l’arte: creando posti di lavoro e appropriate attività sostenibili migliorando l’aspetto e la personalità del quartiere, aumentando l’orgoglio e il senso di appartenenza.” Murales e graffiti come collante sociale, se esso svolge e sviluppa la sua natura etica facendo del mezzo supporto, mediatore, e non terminale della finitezza e finitudine dell’immagine.
Sul versante del virtuale, anche la tecnologia entra in città per abitarne le strutture architettoniche in modo etico, quando il muoversi tra linee e mappe diventa l’orientarsi in un orizzonte di scelte. È il caso ad esempio di CIRCA69 The Third Day, installazione virtuale realizzata da Simon Wilkinson per il Festival PerAspera di Bologna nel 2019. Artista transmediale di riferimento della scena internazionale, Wilkinson combina sistemi di progettazione di videogame, musica elettronica, performance online, intelligenza artificiale, realtà virtuale, realtà aumentata e altre tecnologie sperimentali per presentare esperienze transmediali che invitano ad un coinvolgimento profondo e prolungato dei partecipanti, chiamati a sperimentare un ruolo creativo significativo nello sviluppo dell’opera, al centro della narrazione. Il suo spettacolo di immersione su larga scala Whilst The Rest Were Sleeping, ha fatto il giro di 25 nazioni in cinque continenti negli ultimi tre anni.
A Bologna, il non-luogo generato dall’installazione virtuale è trans-medialità che genera punti di vista dalle prospettive dislocate in paesaggi impossibili. In gioco c’è il rapporto tra testo e immagine generata nella virtualità. La parola non è didascalia dell’immagine. Si tratta piuttosto di un incastro. L’esperienza che gli spettatori fanno indossando un visore, produce un capitolo testuale che a sua volta integra un romanzo espanso in capitoli a sé stanti. Testo romanzo e immagine che ne diventa didascalia virtuale, e spazio di esistenza e reciprocità.
Qui la transmedialità costruisce un non-luogo interessante. Si entra in galleria, si legge un romanzo diffuso per capitoli appesi alle pareti, si penetra nella realtà virtuale, si lascia una testimonianza dell’emozione provata e questa diventerà a sua volta un altro capitolo del romanzo per episodi. L’ambiente virtuale è una disabitata città ideale rinascimentale, i cui punti di vista sono però prospettive dislocate. Il tempo è una stratificazione, una sovrapposizione: un paesaggio impossibile, direbbe Luigi Ghirri, quello che inanella in una catena ricordi, immagini reali, luoghi familiari e spazi vissuti: “la realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto ed è nel mondo reale”.
L’artista londinese, che nella capitale del Regno Unito realizza installazioni visitate da oltre ventimila utenti, sogna che la virtualità sia l’anticamera dell’etica. “Voglio creare un sistema in cui il pubblico è in dialogo diretto con l’oggetto che sta creando. Il ruolo dell’artista è quello di creare sistemi, vorrei che lo facesse e tutto avvenisse in tempo reale”.
Come non pensare quindi all’immagine come intrinseca testualità postmoderna? È lo stesso artista a dire: “La virtualità è una infrastruttura attorno a una domanda sul mondo. L’artista verifica solamente che funzioni il sistema”
Nel video che presenta il progetto sul sito del MAUA, si sottolinea come esso voglia essere un museo espanso: “MAUA è un nuovo modello di museo, diffuso e partecipativo, capostipite di molti altri musei tecnologici del futuro, che vorranno dare vita a modalità innovative di fruizione e valorizzazione, accessibili a un ampio pubblico e aperte al territorio”.
Il museo intrattiene, informa, racconta storie, costruisce argomenti, educa, trasforma l’inaccessibile e lo sconosciuto in accessibile e familiare. Il museo è gerarchia, esperienza conoscitiva e insieme di rapporti ma è soprattutto “spazio critico” come lo ha meravigliosamente definito Federico Ferrari.
Il museo può innescare lo sguardo che dall’interno rilegge la realtà. Nello spazio critico il museo svela i meccanismi espositivi problematizza e riscrive l’opera e crea con essa una via d’accesso ad un tempo comune. L’opera riconfigura tematicamente il luogo ed essa stessa si riconfigura nella sua necessità. Di fatto stabilisce una relazione e un rapporto per un pubblico coprotagonista. Lo spazio che la contiene diviene il luogo della reciprocità che mostra e palesa i modi della visione.
L’opera è aperta all’incontro con l’imprevisto, è medium, collegamento tra memoria collettiva, passato e presente. Solo con lo spazio critico si strappano le opere dall’immobilità perché ad esse si rivolge un senso mai dato per definitivo, aperto, interattivo. L’opera guarda lo spettatore e lo riguarda.
Come non pensare che le periferie oggetto del MAUA siano allora il cortocircuito tra esterno e interno, dove l’opera si dà come complementarietà al domestico, integrazione e appartenenza? La partecipazione ad esse è un essere “tra”, nel “vedo e sono visto” generato dalla fascinazione del non-quotidiano. L’architettura diventa spazio che assorbe e restituisce la città rendendo trasparenti i criteri espositivi: l’opera è condivisa non solo nelle origini ma anche nel suo telos.
Vale la pena inoltre considerare, seguendo le suggestioni di Alessandro Dal Lago, ogni opera sul muro come capitolo di un racconto diffuso e dialogante con i segni dell’iconografia urbana: “intendiamo con Street Art qualsiasi tipo di espressione che utilizzi lo spazio urbano come una pagina di un testo, palcoscenico e risorsa materiale”.
La Street Art è comunicazione antitetica e conflittuale con quella pubblicitaria, “la pervasività del messaggio pubblicitario non viene combattuta con le consuete critiche ma semplicemente sfruttata”.
Il murales altera il significato dello spazio incorporandolo in un racconto costruito di stratificazioni, integrazioni che dialogano con l’universo visivo dominante sovrapponendovi la propria tessitura testuale. Contrapposta all’ordine esistente, politico, pubblico, sociale o culturale, la Street Art circoscrive presenza e identità di gruppo e usa “muri, edifici, ponti e monumenti come un foglio bianco per la protesta popolare: dai graffiti di epoca romana, passando per le pasquinate, fino all’ubiqua produzione contemporanea”.
I messaggi possono essere semplificati, divulgativi o retorici ma l’impatto è sempre da autore a lettore. Se l’opera è paragrafo di una trama che si dipana tra personaggi e ambientazioni, la realtà aumentata non fa che isolare le componenti del discorso, affidando allo spettatore il compito di ricucire il tessuto narrativo.
Ma quale trama è possibile rintracciare che sostenga un storia organizzata secondo strutture drammaturgiche coerenti?
Due sono le trame possibili: quella classica con un protagonista attivo e ostacolato da agenti esterni. Il tempo è lineare, gli eventi sono consequenziali e il finale è chiuso. È evidente che la trama che inanella i protagonisti scaturiti dalla tridimensionalità indotta dalla realtà aumentata non può essere classica ma piuttosto minimalista, ossia: presenza di più di un personaggio, ostacoli che derivano dall’unicità del protagonista, tempo non lineare (flashback, alternanza temporale eccetera) e ovviamente finale aperto che lascia spazio all’immaginazione del lettore. Se combinata con la trama classica l’effetto è quello di una anti-trama: è l’assurdo, non ha inizio e non ha fine, non è lineare, è segmentata. In pratica non c’è una trama.
Consideriamo ora che la trama è un insieme di eventi: casuali, con effetti a catena, o coincidenze senza effetti. La coincidenza, ci ricorda McKee “è un motore narrativo in cui azioni immotivate scatenano eventi che non causano ulteriori effetti che di conseguenza frammentano la storia in episodi divergenti che conducono la storia verso un finale aperto ed esprimono l’aspetto di non connessione ed esistenza”.
La trama dunque è un insieme di cambiamenti significativi: incidenti scatenanti che coinvolgono le forze e gli equilibri in campo. Tra questi equilibri si muove il personaggio che va alla ricerca dell’equilibrio con il desiderio conscio e inconscio, affrontando il rischio, il conflitto nel colmare il divario tra realtà e immaginazione. È proprio questa immaginazione che si incardina come soglia surreale, pelle che se sollevata come un frottage dalla realtà aumentata, è in grado di rivelare le potenze nascoste del reale, ciò che è in opera nel reale. Le immagini non più illusorie quando diventano interattive, ci mantengono incarnati nella realtà svelandoci la potenza del non-essere trompe-l’œil.
Il trompe-l’œil riesce solo se svelato e tra esso e l’immagine sul muro s’insinua il dubbio che ci chiede un doppio sguardo: perché non si guarda un’opera come si guarda il reale. Lì nell’immagine dipinta sul muro la differenza minima è quella di sé da sé e a dirla è il dispositivo che ne svela l’artificio.
Un artificio possibile perché protesi di un corpo, quello dello spettatore, non disincarnato dal reale. “La dis-incarnazione consente di non ridurre la prospettiva della visione virtuale ad una soggettiva cinematografica diretta da se stessi”, scrive Diodato.
Gli ambienti virtuali, si pensi a Carne y Arena di Iñárritu a Milano nel 2018, esaltano la differenza tra corpo e ambiente, l’immersione impedisce tanto la documentabilità dell’esperienza quanto l’obbligo di concentrarci su sensazioni reali.
“L’utente è perciò cosciente di percepire uno spazio immaginario, non ha la percezione di esperire una realtà smaterializzata, bensì una realtà sentita come altra, differente e in certa misura simile ad un prodotto dell’immaginazione. La possibilità di manipolare la propria prospettiva facendola diventare luogo di esperienza si coniuga alla possibilità di apprendere per immersione fino a consentire, anche qui per gradi differenti, l’appropriazione di punti di vista propri di altri utenti”.
Il MAUA riafferma che il murales proprio grazie al dispositivo che non disincarna, può essere opera d’arte. Primariamente perché l’operazione del MAUA riporta al centro ciò che è in periferia.
“L’artista si deve far carico dello scarto” scrive Bourriaud, perché comunque “la realtà che ci circonda è un fatto del linguaggio che gli artisti devono imparare a padroneggiare ed ad articolare con i suoi simboli e le sue metafore, le sue ripetizioni, cioè con gli scarti”.
Ciò che il sistema vede come lo scarto, nella Street Art è possibilità di generazione di un crogiolo evenemenziale che a sua volta innesca la propria catena di collisioni, percepibile non appena si esamina nel suo contesto specifico.
“La borghesia dà al disordine della vita la stessa consistenza del minerale che ricopre l’esistente con una vernice di eternità su cui poggerà il suo potere, il quale è prima di tutto il potere di chi idealizza la realtà”. Il modo in cui costruiamo la narrazione della realtà dipende dalla percezione che il nostro io ha della realtà stessa. La storia – simile alla sceneggiatura – rappresenta una cartografia cioè una rappresentazione elaborata a partire da una raccolta e da un montaggio di cui si deve cercare la responsabilità del montaggista, del final cut.
L’immagine della Street Art si presenta quindi come possibilità di sostituire il centripeto con il centrifugo e necessità di sostituire entrambi con un decentramento generalizzato, per destabilizzare le bussole privandole di un nord normativo.
In secondo luogo, MAUA conferma come tutto questo sia possibile solo se l’oggetto del nostro sguardo è declinato e riconosciuto come immagine artistica. “L’opera d’arte si distingue dall’oggetto perché è ciò che ci chiama a guardarvi almeno due volte”. Altrimenti ciò che vediamo sarebbe solo muro. “Se l’opera d’arte non è più distinguibile dall’oggetto, se siamo cioè in situazione di indecidibilità, allora salta lo statuto stesso dell’arte, giunta per questa via al suo esito estremo, alla sua morte”.
Una morte giunta per via ottica, perché è visivamente che le opere non sono più distinguibili dagli oggetti. Decidere visivamente quale sia la differenza tra opera e ambiente, testo e contesto, è compito dello spettatore. L’infrasottile mostra la differenza come limite, come soglia, bordo attraverso cui avviene il passaggio per vedere diversamente. Passaggio consentito dal dispositivo creato da MAUA, una possibilità ontologica che conferisce all’immagine il suo statuto artistico e alla partecipazione del pubblico la responsabilità estetica: guardare due volte significa vedere due livelli sovrapposti. Significa considerare la presenza nell’immagine dell’immagine ma anche la differenza tra apparenza e apparizione.
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