I MAGHI CREDONO ALLA MAGIA?

3 Novembre 2025

Co-creare arte urbana aumentata può insegnarci a resistere alla post-realtà.


di Mauro Filippi

 

Nel 2016 nasceva MAUA, il primo Museo di Arte Urbana Aumentata in Italia, un museo diffuso e per sua natura ibrido, in parte fisico (collocato nello spazio geografico) e in parte virtuale (collocato nello spazio del web). Nel 2016, quasi dieci anni fa, la realtà aumentata era ancora un effetto speciale, un gioco di prestigio, un super potere nelle mani di pochi eroi.

In termini di innovazione tecnologica, oggi, sembra passata un’era geologica da quando veniva testato il primo fallimentare prototipo di Google Glass, arrivavano sul mercato i primi visori HoloLens e spopolava l’app Pokemon Go, mietendo le prime vittime in strada tra adolescenti che non distinguevano più tra gioco e vita. Eppure dieci anni fa sembrava già di aver fatto un salto quantico rispetto alla rudimentale esperienza di virtualità aumentata alla quale ci avevano abituato esperimenti pionieristici come quello della webcam EyeToy della Playstation che provavano a catapultare il corpo fisico dei giocatori nel mondo virtuale della simulazione. In pochi anni siamo passati dall’elogio della realtà immersiva fatta di caverne digitali e visori opachi al primato della ben più ricca ed esaltante realtà mista, costruendo di fatto un nuovo modello ontologico che mette in dubbio definitivamente il rigido binarismo reale/artificiale. La realtà aumentata ha dimostrato e reso evidente senza far ricorso alle parole, che la realtà non sia un’entità singolare (fisica) o binaria (fisica/virtuale), ma può essere invece intesa come un’entità plurale, multipla, espansa, rappresentata da uno spettro di infinite possibilità.

“A world where many worlds fit” direbbero gli zapatisti.

Dal metaverso siamo passati al multiverso e questo ci ha costretti ad abbandonare vecchie categorie epistemologiche non più in grado di descrivere ciò che in effetti viviamo ogni giorno; un mondo che senza server tornerebbe domani stesso indietro all’era pre-industriale.

In troppo poco tempo siamo passati dalla concettualizzazione di iper-realtà, in cui i segni e le immagini non rimandano più a una realtà originaria sottostante ma si sostituiscono a essa, a quella, ancor più totalizzante e cupa, se possibile, di post-realtà, in cui i fatti oggettivi perdono peso rispetto alle percezioni, alle emozioni e alle narrazioni soggettive. Il reale (forse) non è ancora del tutto scomparso (come sosteneva Baudrillard), ma certamente sta perdendo a ritmo incalzante la sua ormai obsoleta autorità condivisa. Siamo stati risucchiati in una guerra tra realtà che frulla vorticosamente vecchi e nuovi valori, in una dimensione che ci appare astorica e che ci immobilizza, erodendo lentamente la nostra capacità di distinguere tra libertà e controllo, giustizia e potere, pace e sicurezza.

Dal tecno-ottimismo delle origini della Silicon Valley, con le grandi innovazioni che avrebbero dovuto salvare il mondo da ogni male, in questi dieci anni siamo passati a un ben più dilagante e pervasivo tecno-scetticismo che vede addirittura nella crescita esponenziale dell’Intelligenza Artificiale un rischio apocalittico.

L’homo technologicus di oggi non si chiede più se esista una distinzione tra vero e falso, tra reale e artificiale, ma nell’epoca della post-verità, pensa solo se ciò che vede e legge “funzioni” emotivamente, se crei significato condiviso. In questo scenario iper e post-mediale tuttavia sembra che la realtà aumentata possa ancora giocare un ruolo cruciale, per lo meno da un punto di vista pedagogico, in quanto disvelatrice diretta del “cerchio magico”, ossia di quelle bolle di realtà in conflitto in cui ognuno di noi vive quotidianamente immerso come un pesce. Nel porsi a metà strada tra fisico e virtuale infatti, la realtà aumentata rende chiaramente evidente la separazione tra i due mondi, non solo svelando il trucco del mago, ma dimostrando al contempo l’esistenza stessa dei due mondi attraverso la loro combinazione in un terzo mondo possibile, contemporaneamente reale e irreale.

La realtà aumentata diventa quindi un mezzo privilegiato per ridare fiducia nella possibilità di cambiare il mondo, lavorando proprio sulla disillusione del concetto stesso di mondo, di mondo unico, singolo e universale. La realtà aumentata permette di liberarsi di tale gabbia di pensiero e acquisire fiducia nella possibilità individuale e collettiva di creare mondi altri, alternativi, diversi, plurali, e creare così nuove possibilità, che a loro volta abilitano altre possibilità, e così via, in modo inferenziale, iterativo e ricorsivo.

“Conta quali materie usiamo per pensare altre materie; conta quali storie raccontiamo per raccontare altre storie; conta quali nodi annodano nodi, quali pensieri pensano pensieri, quali descrizioni descrivono descrizioni, quali legami legano legami.” (Haraway, D. (2016) Staying with the Trouble).

Se non ci si limita a fruire della realtà aumentata in modo passivo e acritico ma si impara a generarla e usarla in modo consapevole e intenzionale, allora il suo valore può davvero creare conoscenza, competenza e agentività. In questo senso MAUA rappresenta un esperimento virtuoso, non solo per l’apporto dato alla crescita del patrimonio culturale collettivo da un punto di vista artistico ma soprattutto per quello offerto da un punto di vista pedagogico e di potenziamento della cittadinanza attiva. MAUA funziona come agente di riattivazione dello spazio pubblico, riconquista dello spazio collettivo e rivendicazione dello spazio condiviso, fisico e virtuale. Esattamente come i Graffiti, che riscrivendo lo spazio della città, la risemantizzano e la risignificano riappropriandosene, o forse meglio, adottandola, l’arte digitale applicata ai graffiti ne aumenta ulteriormente il valore, ne potenzia il significato e ne espande il potenziale comunicativo. Adottare un’opera d’arte urbana per un artista digitale nasconde già l’impegno personale a una ricerca attiva, l’esplorazione corporea dello spazio urbano e l’interrogazione critica sul senso dei luoghi e sulla metamorfosi delle città. Nelle città contemporanee neoliberali, post-moderne e post-umane, in cui lo spazio pubblico è sempre più ridotto a mero interstizio tra una moltitudine sovrabbondante di spazi privati, la valorizzazione dello spazio pubblico, anche attraverso il virtuale, diventa essa stessa un atto di resistenza, un’azione deliberata di decolonizzazione dello sguardo. Potremmo definire MAUA una performance di graffitismo virtuale “in seconda”: la riappropriazione di uno spazio già marcato, ma che, come “opera aperta”, tende naturalmente ad accogliere infinite ulteriori riletture, interpretazioni e possibilità. L’idea poi di mettere in contatto artisti digitali con street artist aggiunge anche il valore della convivialità, del dialogo e della collaborazione, in un meccanismo di co-costruzione di senso e di valore attraverso l’arte, fisica, virtuale e mista.

Dialogo per fortuna non significa però sempre e solo convergenza, consenso e unione, ma anche dissenso, divergenza e conflitto, nello spirito democratico proprio di ogni spazio pubblico che auspichi a mantenere questo appellativo. Confrontarsi con l’idea di chi vive quotidianamente gli spazi pubblici e chi decide di dipingerne le pareti, alimenta la costruzione di valore culturale e rappresenta un seppur piccolo segno politico nell’azione artistica collaborativa che innesca. La mediamorfosi dell’’arte aumentata che genera da dipinti urbani restituisce a chi osserva la sensazione di possibilità che emana dallo spazio pubblico, liberando il potenziale espressivo e altermondista che si nasconde dietro ogni muro, ogni palo, ogni panchina, ogni cosa che vediamo e che sentiamo camminando in città.Con la bacchetta magica e il cilindro di MAUA dai muri di tante città italiane oggi saltano fuori conigli e colombe bianche. Viene dunque da chiedersi però se queste colombe siano vere oppure no, o, forse, dovremmo solo smettere di interrogarci sulla loro veridicità e chiederci invece se siano piuttosto colombe di pace o di giustizia.